L'attenzione selettiva spaziale consiste nella capacità di mutare la rappresentazione spaziale dell'ambiente attraverso una modifica del livello di attivazione dei neuroni di una mappa: nelle mappe pragmatiche ogni unità codifica la valenza pragmatica degli oggetti presenti nel proprio campo percettivo; amplificando il valore interno dell'unità si accresce la salienza dell'area corrispondente al campo percettivo. Amplificando un gruppo adiacente di unità si accresce la salienza dell'area corrispondente all'unione dei campi percettivi delle singole cellule.
Se immaginiamo la mappa spaziale come una fotografia il meccanismo attentivo avrà il compito di sovraesporre un area e sottoesporre tutte le altre. La metafora normalmente utilizzata in letteratura è quella del riflettore capace di illuminare selettivamente determinate parti dello spazio (Umiltà, 1988, pag. 175).
Figura 2: la mappa pragmatica passa attraverso un filtro che eccita alcune zone e ne inibiscealtre
Lo spostamento del focus
L'ipotesi secondo cui la selezione spaziale consiste nella modificazione della rappresentazione è, almeno implicitamente, unanimemente condivisa. Per quanto concerne altri aspetti, quali la forma del focus ed il meccanismo di spostamento, le opinioni sono invece tutt'altro che concordi. A grandi linee, è possibile suddividere le varie ipotesi in due gruppi:
- da una parte vi sono coloro che ritengono che il movimento da un punto all'altro avvenga in maniera continua, a velocità costante e che il riflettore illumini via via tutte le posizioni intermedie;
- dall'altra parte vi sono coloro che sostengono che il movimento avvenga in modo discreto, e dunque non copra le posizioni intermedie.
Figura 3: l'algoritmo di spostamento dell'attenzione
Il modello di Posner
Fra le teorie che assumono che il movimento avvenga in modo continuo la più importante è quella formulata da Posner (Posner & Presti, 1987; Posner & Petersen, 1990, pag. 28; Posner, Petersen, Fox & Raichle, 1988). Secondo Posner lo spostamento dell'attenzione implica tre operazioni:
- l'operazione di sganciamento dell'attenzione dal punto di partenza;
- l'operazione di spostamento del focus lungo la linea che va dal punto di partenza al punto di arrivo;
- l'operazione di agganciamento del focus nella nuova locazione.
Come vedremo nel capitolo dedicato al substrato anatomofisiologico Posner localizza il modulo di sganciamento nel lobo parietale, il modulo di spostamento nel mesencefalo (e più specificamente nel collicolo superiore), ed il modulo di agganciamento nel pulvinar (Posner & Petersen, 1990, pag. 28).
Secondo questo modello lo spostamento dell'attenzione avviene a velocità costante; questo significa che il tempo impiegato dal sistema per spostare l'attenzione è proporzionale alla distanza dal punto di partenza a quello di arrivo (Umiltà, 1988, pag. 185).
Questa teoria è stata formulata per spiegare due classi di fenomeni:
- il movimento continuo, a velocità costante viene invocato per spiegare il rapporto distanza/salienza di cui si è accennato nel paragrafo relativo al paradigma di Posner;
- la suddivisione del processo in tre distinte operazioni (disancoraggio, movimento, ancoraggio) vogliono invece spiegare alcuni importanti dati raccolti in ambito neurologico, ovvero il comportamento esibito da pazienti affetti da lesioni nella corteccia parietale, nel talamo e nel mesencefalo.
L'ipotesi del gradiente
Nel modello sopra esposto Posner spiega la relazione esistente fra i tempi di reazione e la distanza dello stimolo dal focus invocando i tempi di spostamento del riflettore. Esiste, però, un'altra possibilità di interpretare tali dati: la funzione a V potrebbe essere dovuta non ai tempi di spostamento ma alla forma del focus, o meglio alla distribuzione delle risorse attentive. In questo caso i tempi di reazione sarebbero legati non allo spostamento del focus, che avverrebbe in maniera discreta, ma al livello di attivazione della zona della mappa dove lo stimolo appare. Un'ipotesi alternativa a quella di Posner assume dunque che la funzione a V dei tempi di reazione può essere spiegata immaginando un filtro che distribuisce le risorse attentive attraverso un gradiente di attivazione che va da un massimo al centro del fuoco e diminuisce in maniera continua mano a mano che ci si allontana. La funzione di distribuzione del focus avrebbe in questo caso un andamento reciproco rispetto alla funzione a V. L'ipotesi del filtro risale a Wilhelm Wundt (Huges & Zimba, 1987) ed è stata proposta, fra gli altri, da Downing & Pinker (1984) e, in maniera differente, da Huges & Zimba (1987) e da Tassinari e colleghi (1987).
Le due ipotesi (riflettore che si muove o gradiente) sono fra loro incompatibili: nel modello di Posner i soggetti sani, nell'eseguire l'esperimento nella situazione invalidly-cued, si comportano sostanzialmente nel seguente modo:
- Apparizione suggerimento
- Detezione suggerimento
- Sganciamento (qualora l'attenzione non sia diffusa)
- Spostamento verso suggerimento
- Agganciamento su suggerimento
- Apparizione stimolo
- Detezione stimolo
- Sganciamento da suggerimento
- Spostamento da suggerimento a stimolo
- Agganciamento stimolo
- Risposta stimolo
Secondo l'ipotesi del filtro a gradiente (che qui definiremo filtro a cono) lo spostamento del focus nella situazione invalidly-cued avviene in modo discreto, secondo la seguente sequenza:
- Apparizione cue
- Detezione suggerimento
- Applicazione del filtro a cono
- Apparizione stimolo
- Detezione stimolo
- Risposta stimolo
Nel primo algoritmo si suppone che, prima della risposta, avvenga uno spostamento del focus. Tale spostamento sarebbe giustificato se il compito sperimentale fosse di discriminazione (Sagi & Julesz, 1985, pag 1218). In tal caso, infatti, prima di rispondere il soggetto sarebbe costretto ad operare un'analisi seriale dello stimolo, e dunque lo spostamento del focus sarebbe necessario. Nell'esperimento di Posner, viceversa, il compito è squisitamente di detezione e la risposta è assolutamente banale (go/no go), e dunque un'elaborazione di tipo parallelo è del tutto sufficiente (Sagi & Julesz, 1985). Tale ipotesi è confermata da un esperimento di Treisman e Gelade, che dimostra come la detezione di uno stimolo bersaglio definito in base ad un solo attributo fisico avvenga senza la localizzazione del bersaglio stesso e dunque senza l'intervento dell'attenzione spaziale (Treisman e Gelade, 1980 esperimenti n° 8 e 9).
Un secondo motivo per dubitare dell'ipotesi del movimento continuo è dato da considerazioni di carattere funzionale. Illuminare le zone intermedie fra un punto e l'altro dello spazio è non solo inutile, ma anche dannoso, in quanto il focus rischierebbe di rimanere ancorato ad oggetti intermedi. Un secondo inconveniente è costituito dal fatto che, a rigor di logica, tutte le aree visitate dal riflettore dovrebbero essere interessate dal fenomeno dell'inibizione di ritorno.
Il filtro a cono può essere utile nella percezione multimodale: immaginiamo che il locus spaziale verso cui orientare l'attenzione ed eventualmente lo sguardo venga suggerito attraverso uno stimolo uditivo: la localizzazione di una sorgente sonora è molto meno precisa della localizzazione visiva; indirizzando il filtro a cono verso la locazione stimata il focus attentivo sarà distribuito in maniera congruente con la distribuzione di probabilità nell'intorno del locus stimato.
L'ipotesi del gradiente è compatibile con dati neurofisiologici, in particolare con il tipo di codifica riscontrato in alcune aree cerebrali quani l'area frontal eye fields, il collicolo superiore ed i gangli della base (distribuzione gaussiana, Bruce & Goldberg, 1985).