La definizione di artefatto che si trova all'interno dell'Activity Theory è piuttosto ampia. Viene definito, infatti, come qualsiasi strumento, fisico o ideale, utilizzato dall'uomo in un'attività, per raggiungere un determinato obiettivo.
Donald Norman identifica un tipo di artefatto più specifico definendolo artefatto cognitivo.
"Un artefatto cognitivo è dunque un dispositivo artificiale che svolge una funzione di rappresentazione, progettato per presentare, mantenere e operare sull'informazione." (Norman, 1993).
Secondo Cole (1990), una delle caratteristiche peculiari degli individui risiede nella capacità di modificare l'ambiente esterno attraverso la creazione di artefatti.
Gli artefatti cognitivi svolgono più efficientemente le funzioni solitamente affidate alla mente, permettendo a quest'ultima di svolgere attività più complesse. Semplici esempi di artefatti cognitivi sono un nodo al fazzoletto, una lista della spesa, una calcolatrice (Bühler 1934).
Gli artefatti si dividono in:
superficiali, in cui quello che si vede è tutto ciò che esiste, ad esempio una lavagna. In questi artefatti non vi è nient'altro al di là di ciò che è percepibile;
interni, in cui parte dell'informazione è rappresentata internamente nell'artefatto. Nella calcolatrice, ad esempio, i dati sul display e i pulsanti non sono le uniche rappresentazioni dell'artefatto. Ve ne sono altre, interne, come i risultati provvisori che all'utente vengono tenuti nascosti. Quindi in questo caso vi è di più di ciò che è possibile percepire;
attivi, capaci di modificare le proprie rappresentazioni, come ad esempio l'orologio;
passivi, incapaci di modificare le proprie rappresentazioni senza che vi sia l'intervento umano, come ad esempio la lavagna.
Scrive ancora Norman, che: "Qualunque cosa inventata dall'uomo per potenziare il proprio pensiero o le proprio azioni è un artefatto" (Norman, 1995, p. 18).
Nell'era tecnologica in cui viviamo, l'artefatto (interno attivo) per eccellenza è il computer. Esso, come molti degli artefatti cognitivi, richiede a chi lo utilizza di imparare ad usarlo, di svolgere quindi un'attività nuova che, se da una parte permetterà di effettuare una serie di compiti molto complessi, dall'altra richiederà un periodo più o meno lungo di apprendimento.
Il MdR come artefatto cognitivo
Donald Norman, nel libro "Le cose che ci fanno intelligenti", racconta che durante un esperimento sulla memoria di lavoro in cui chiedeva ai suoi studenti di tenere a mente lunghe serie di cifre, scoprì che una studentessa prendeva appunti. Anche se in quell'occasione la sua reazione fu di infuriarsi, ripensandoci, oggi ritiene che in effetti il comportamento della ragazza fu del tutto ragionevole. Il tenere a mente una serie di numeri senza nessun collegamento tra loro era una richiesta stupida e la studentessa aveva agito correttamente nell'usare un supporto di memoria esterna che l'aiutasse in quel compito.
La memoria degli essere umani è limitata, però è possibile espanderla attraverso l'uso degli artefatti cognitivi.
Si può pensare che anche il MdR sia un artefatto cognitivo. Attraverso di esso si ha la possibilità di fare ricerche mirate nell'immenso "calderone" di Internet. Lo si può vedere come una grossa memoria esterna da cui trarre informazioni ogni qual volta se ne ha bisogno.
Ci si può quindi chiedere: il MdR è uno strumento che amplifica la nostra memoria?
Un artefatto cognitivo può essere considerato in due diversi modi.
Punto di vista del sistema. L'insieme individuo più artefatto diviene più intelligente delle due parti prese singolarmente. Nel caso del MdR l'utente ha a disposizione uno strumento in grado di fornirgli informazioni inerenti la ricerca che sta effettuando. Egli avrebbe più difficoltà a recuperare le stesse informazioni senza l'ausilio dello strumento. La prestazione quindi è potenziata.
Punto di vista della persona. L'artefatto cambia la natura del compito. L'utente può ottenere le informazioni cercandole tramite delle parole chiave. Dovrà quindi effettuare un compito preciso, diverso da altri che si possono adottare nel Web per arrivare al medesimo risultato.
Rispondendo alla domanda posta prima, il MdR non modifica la capacità di memoria dell'individuo, preso singolarmente, ma ne modifica il compito. Esso non consiste più nel ricordarsi dove andare a cercare le varie informazioni in Internet, ma in quella di digitare le parole chiave adatte per trovare ciò di cui ha bisogno.
Le affordance percepite
Il termine "afforderungsKaratter" viene ideato per la prima volta da Werteimer (1938) e Koffka (1927) e ripreso successivamente dallo psicologo J.J. Gibson (1999) nello studio della percezione umana.
L'affordance è definita come l'insieme delle possibili azioni dell'oggetto. Per esempio una sedia invita a sedersi, mentre una maniglia invita alla rotazione.
Essa rappresenta una proprietà terziaria (Koffka 1927) ed uno stesso oggetto può, per certi versi, avere delle affordance differenti a seconda di chi lo utilizza.
Non è quindi importante stabilire a priori quali siano le affordance per ogni strumento od oggetto, ma quali quelle soggettivamente percepite. Saranno infatti quest'ultime a determinare le possibili azioni che si possono compiere e in quali modi.
Nel MdR vi sono varie possibilità offerte al navigatore (per esempio la ricerca avanzata e le sezioni diversificate, ecc.), però ciò che risulta interessante capire è se esse vengano colte e utilizzate dall'utente, risultando, quindi, come affordance percepite dell'artefatto.
Si può ipotizzare che il navigatore:
le percepisca tutte;
ne percepisca solo una parte;
non ne percepisca nessuna.
L'invisibilità dell'artefatto
Secondo Norman "la tecnologia dovrebbe svanire dalla nostra consapevolezza ed aiutarci in silenzio, senza imporci una presenza massiccia e sgradevole" (Norman 2005, p. XII)
Norman si concentra sullo strumento tecnologico per eccellenza di questi anni, il computer. Esso dovrebbe essere uno strumento silenzioso, invisibile e poco invadente, invece si rivela fin troppo visibile e troppo esigente. L'utente spesso si trova di fronte ai suoi malfunzionamenti, restando intrappolato in continue manutenzioni, aggiornamenti e riavvii, che portano in secondo piano i compiti a cui invece il computer dovrebbe assolvere, ciò di cui l'utente ha effettivo bisogno.
I computer, continua Norman, dovrebbero risultare utili per ottenere delle risposte, per divertirsi, per acquisire le informazioni di cui si ha bisogno, da utilizzare senza che occorra fare ulteriori riflessioni.
Come il computer, il MdR dovrebbe consentire all'utente di concentrarsi sulla ricerca di informazioni, sull'acquisizione di conoscenza senza che ciò implichi complessità e frustrazione.
Il MdR dovrebbe restare sullo sfondo, fare da mediatore tra il navigatore e lo spazio internet, agevolare la ricerca e non aumentare il carico cognitivo dell'utente.
Importante è sottolineare che l'inserimento delle parole chiave non deve diventare d'intralcio alla ricerca di informazioni; l'attenzione del navigatore dovrebbe, in effetti, continuare ad essere focalizzata su ciò che sta cercando e non sul modo in cui esso deve essere cercato.
Il "breakdown"
Secondo Heidegger (1988), gli oggetti e le loro proprietà non sono tutti immediatamente evidenti nel mondo, ma è possibile accorgersi di essi solamente nel momento in cui accade qualcosa, che li porti ad essere presenti.
Questo momento è definito da Heidegger "breakdown"(Heidegger, 1988), una situazione di non ovvietà, che porta a scoprire un aspetto dell'insieme di strumenti che si stanno utilizzando e quindi il nesso di relazioni necessario a completare il compito.
"Per la persona che sta martellando, il martello in quanto tale non esiste. Fa parte di uno sfondo di utilizzabilità che è dato per scontato, senza essere riconosciuto o identificato esplicitamente in quanto oggetto. Fa parte del mondo di "martellare" ma non è presente più di quanto non lo siano i tendini del braccio di colui che martella. Il martello si presenta in quanto tale solo quando si produce un qualche breakdown o una situazione di non utilizzabilità: la sua "martellità" emerge se si rompe [...]. Pertanto il martello non esiste per noi se non all' interno delle attività che svolge. In occasione di un breakdown allora ho conoscenza razionale, descrivibile. Se emerge la semplice presenza allora ho bisogno di rappresentazioni" (Winograd e Flores, 1987, p. 60).
Un altro esempio. Quando si scrive una lettera con un elaboratore di testi, si è concentrati sui contenuti della lettera e lo strumento rimane in sottofondo senza che ci si accorga della sua presenza. Nel momento in cui emerge un problema legato al software, esso riaffiora alla nostra consapevolezza ponendoci la necessità di trovare una soluzione.
Edmund Husserl (1995), prima di Heiddeger, sosteneva che "l'oggetto individuale non può essere posto in evidenza primaria se esso non reca con sé il senso della sua presenza". Gli oggetti sono presenti nel mondo come già-dati (autodatità), quindi in qualche modo l'uomo presuppone la loro esistenza, ma è nel momento in cui vengono selezionati e con essi viene fatta esperienza che possono dirsi veramente esistenti.
Il "breakdown" nell'interazione con i MdR.
Nel momento in cui il navigatore affronta una ricerca di informazioni che, attraverso l'uso dei MdR, possono essere reperite facilmente, l'artefatto si confonde con lo spazio di Internet rimanendo sullo sfondo e facendo in modo che l'utente possa concentrarsi sull'acquisizione di nuove conoscenze.
Il "breakdown" avviene nel momento in cui il navigatore, interagendo con il MdR, trova difficoltà nella ricerca. In questa situazione, lo strumento appare in primo piano, costringendo l'utente a spostare l'attenzione dalla ricerca di informazioni alle strategie da adottare per ottenerle.
In quest'ultimo caso, diventa interessante capire:
se riesce ugualmente ad arrivare all'obiettivo e quindi gli strumenti che ha a disposizione gli bastano;
quali strategie mette in atto per arrivare all'obiettivo;
nel caso in cui riesca ad arrivare all'obiettivo, quanto si ritiene soddisfatto;
quali sono le circostanze, le motivazioni e il suo pensiero nel momento in cui decide di abbandonare.