Tornando a parlare della working memory, una parziale revisione della teoria di Baddeley si è avuta recentemente ad opera di Zhang (1994). Egli postula l'esistenza di una memoria di lavoro distribuita (distributed working memory), che può essere scomposta in due sottosistemi: una memoria di lavoro esterna (external working memory) e una memoria di lavoro interna (internal working memory). In altre parole, questa teoria enfatizza il carattere distribuito dei fenomeni cognitivi, affermando che qualsiasi comportamento intelligente è il frutto dell'interazione tra la conoscenza nella nostra mente e la conoscenza nel mondo.
La nostra memoria è molto efficiente, tuttavia, maggiore è il carico cognitivo richiesto al soggetto dal compito che si appresta a svolgere e maggiori sono gli errori che può compiere. In caso di sovraccarico cognitivo, la possibilità di delegare ad un sistema esterno parte delle informazioni necessarie allo svolgimento del compito può essere davvero molto utile. Il comportamento del soggetto è determinato quindi sia dalle sue risorse cognitive che dal mondo esterno, dagli oggetti e dai vincoli che gli stessi pongono al proprio utilizzo.
Le persone possono cercare consapevolmente strategie atte a facilitare loro i compiti e ad alleggerire il carico mnestico, attraverso l'utilizzo di promemoria, oppure possono essere gli stessi artefatti a guidare l'azione o il comportamento attraverso varie affordances.
Il concetto di affordances utilizzato da Norman (1997) è mutuato dalla teoria ecologica di Gibson (1979), il quale afferma che l'informazione è tutta presente nel mondo esterno ed il nostro compito è solo quello di scoprirla. Le affordances sono quelle proprietà degli oggetti, reali o percepite, che ci danno indicazioni sul loro possibile utilizzo: sono "inviti all'uso" che permettono di diminuire il carico mnestico del soggetto.
Dopo un certo periodo di tempo si ricorda una minore quantità di cose rispetto a quelle apprese. La diminuzione dei contenuti ricordati è stata sperimentata da Ebbinghaus (1885). Secondo Ebbinghaus, l'oblio, dapprima molto rapido, diventa sempre più lento con il passar del tempo. In altri termini, la curva dell'oblio anche se scende a valori minimi non arriva mai allo zero assoluto, per cui almeno qualcosa di ciò che abbiamo appreso lo ricordiamo sempre.
Egli, attraverso un esperimento, ha dimostrato che le persone, anche quando dicono di non ricordare nulla di ciò che hanno appreso in precedenza, possono riapprendere lo stesso materiale in un tempo inferiore a quello che era stato necessario durante il primo apprendimento, a riprova del fatto che essi mantengono un qualche ricordo del materiale appreso. L'esperimento classico, ideato da Ebbinghaus, consiste nel presentare ai soggetti alcuni items da studiare, dopo una sessione di studio i soggetti sono sottoposti ad una prova di rievocazione, in questo modo viene calcolato il tempo necessario per il completo apprendimento della lista. Dopo alcune settimane ai soggetti sembra solitamente di non ricordare più nulla. A questo punto viene ripetuta la procedura di apprendimento. Per ottenere una perfetta rievocazione di tutti gli items, è sufficiente un tempo di studio inferiore alla prima volta. Questo risparmio indica che era rimasta una qualche memoria del materiale appreso.
E' un fatto convalidato che il riapprendimento, anche se si tratta di contenuti ormai dimenticati, è sempre più facile rispetto all'apprendimento di materiale completamente nuovo. Dunque, qualche traccia di quello che abbiamo imparato sopravvive sempre.